Come più volte sottolineato, quello dell’internazionalizzazione è un processo complesso e articolato che coinvolge l’intera impresa. In questo senso, esso non riguarda il singolo servizio o prodotto da portare semplicemente oltreconfine, o sporadiche e occasionali attività di export, ma propriamente implica una profonda trasformazione che inevitabilmente investe tutte le funzioni aziendali e sottintende necessariamente la trasformazione della cultura aziendale e un adeguamento della formazione e della cultura del management. Come evidenzia Carlo Russo nel paragrafo intitolato Storia delle variabili da studiare per delocalizzare, contenuto nel suo volume Internazionalizzazione vincente, ad certo punto, “divenne sempre più importante studiare dove e come delocalizzare, per quali motivi, per quali vantaggi, come ad esempio i nuovi mercati di vendita o per superare le costose barriere doganali alle importazioni: in che forma delocalizzare, se attraverso degli insediamenti diretti controllati al 100% (legislazione locale permettendo) o delle Joint Ventures con partners locali, e in questo caso, se di maggioranza e di controllo o di minoranza, e in che modo concepire i prodotti, il design, i colori e i brand”.
Molte delle azioni che possono essere intraprese, da quelle più semplici, che richiedono un minor impegno di risorse, fino a quelle più impegnative, onerose e con una programmazione a lungo termine, hanno come elemento di base, che ne determina l’orizzonte costitutivo, il background culturale in cui vanno ad inserirsi, ovvero il contesto culturale in cui vive il destinatario del messaggio. Come si sa, la comunicazione si articola attraverso il ricorso a determinati codici: senza un adeguato sistema di codificazione e decodificazione del messaggio non si riesce a raggiungere un’intesa neanche all’interno del medesimo orizzonte culturale, figuriamoci tra culture diverse.
Carlo Russo cita sull’argomento diversi casi, capaci di illustrare in maniera molto efficace e icastica il peso e l’incidenza di queste variabili sulla riuscita di un processo di approccio ad un mercato estero. Il manager fiorentino ricorda, ad esempio, il caso celebre dell’automobile VW messa sul mercato dalla Volkswagen con il nome Jetta, che, in Italia, si scontrò nelle decisioni di acquisto dei clienti a causa della scaramanzia suggerita dal nome, associato alla sfortuna o nei casi “migliori” ad una cosa da buttare.
Altro caso di fallimento commerciale citato è quello registrato in Arabia Saudita e legato al colore bianco, perché in quei paesi è il colore del lutto, che invece in Italia, come sappiamo, è il nero. Ma, oltre alla preparazione manageriale, alla mediazione linguistica e culturale, argomenta Carlo Russo, “agli imprenditori italiani delle PMI, salvo i casi personali di successo, mancava la cultura necessaria per affacciarsi all’estero: sulle tradizioni e usanze alimentari, sulla religione locale e abbigliamento da usare; in generale sugli errori da evitare nel negoziare. Nomino, persino, delle sfumature che potevano rovinare il clima delle trattative, vissute in prima persona: nei paesi arabi era normale interrompere le riunioni per pregare. In Cina era importante presentarsi porgendo il biglietto da visita con due mani e un leggerissimo inchino. In India non si poteva proporre, ad indiani di culto Jain, alcun business che comportassero l’uccisione di animali, come le calzature in pelle, e così via. Figuriamoci poi sulle cose importanti”.
Come non manca di osservare Carlo Russo, a conclusione del breve e interessante paragrafo, a differenza degli imprenditori tedeschi e francesi, a correre in soccorso degli imprenditori italiani è stata sempre una certa proverbiale e connaturata estrosità, creatività e spontanea simpatia che ne ha sempre determinato un certo apprezzamento, in qualsiasi parte del mondo.