In questi ultimi decenni il mondo dell’impresa ha assistito ad una accelerazione decisa della competizione dei mercati a livello globale, trovandosi nella condizione di attuare precise strategie per sfruttarne le opportunità e governarne gli effetti negativi. Appare sempre più come un tema inderogabile quello della ridefinizione delle strategie imprenditoriali in un’ottica di competizione internazionale e dell’avvio di percorsi di internazionalizzazione e presenza estera, le cui modalità devono essere programmate in modo tale da assicurare all’azienda le risorse, finanziarie e non, necessarie a sostenere lo sviluppo di un vantaggio competitivo.
Il confronto con un’area di competizione internazionale implica certamente un cambiamento radicale di strategia, che, tuttavia, preserva la centralità dei vertici aziendali nel processo di deliberazione strategica e conferma il peso decisivo, ai fini del successo estero dell’impresa, delle competenze del management. Quest’ultimo rappresenta un aspetto su cui più volte è ritornata la riflessione di Carlo Russo, da sempre impegnato nel promuovere l’idea, secondo la quale, proprio la forte dinamica competitiva che domina la globalizzazione, genera e impone il ricorso a tutta una serie di competenze, che siano funzionali al trasferimento del successo conseguito in patria anche oltreconfine. Competenze che, per ovvie ragioni, devono essere reperite al di fuori di quelle di cui dispone un’azienda al suo interno. Questo perché il management si trova nella condizione di assicurare un costante allineamento delle competenze presenti al suo interno rispetto alle esigenze della strategia ideata in una dimensione internazionale. In modo particolare, è richiesta una precisa capacità di analisi e valutazione dei potenziali rischi e identificazione delle opportunità a livello globale, di promozione dei processi di innovazione, coordinamento dello sviluppo organizzativo, tecnologico e dei flussi informativi legati all’internazionalizzazione dell’azienda.
All’interno del contesto italiano, sia imprenditoriale che accademico, appare sempre più d’attualità e fonte di dibattito il tema dell’internazionalizzazione e questo rappresenta un chiaro indice di come, anche nel nostro Paese, si sia affermato un deciso interesse attorno all’argomento. Malgrado questo vivace interesse, in Italia la letteratura in tema di competenze per l’internazionalizzazione registra ancora una scarsità di contributi e appare limitata ad alcune analisi applicate al settore del “made in Italy”.
L’osservazione del tessuto imprenditoriale italiano evidenzia che solo una piccola parte esporta i propri prodotti nei mercati esteri e un numero ancora più esiguo è in grado di trasferire la produzione all’estero, aprendo una filiale direttamente o a seguito di accordi tecnico-produttivi. La capacità di internazionalizzazione commerciale e produttiva appare svilupparsi in ragione della dimensione dell’impresa: la maggiore capacità di internazionalizzazione si rileva tra i grandi gruppi industriali, per poi ridursi, fino a diventare quasi irrilevante, nelle microimprese che, nel caso italiano, incarnano la spina dorsale costitutiva del sistema imprenditoriale.
Questa scarsa propensione all’internazionalizzazione palesata dalle PMI è stata oggetto di studio, al fine di individuarne le cause strutturali. Questi studi documentano come la performance internazionale delle aziende sia soggetta all’influenza di una molteplicità di fattori e che la dimensione dell’azienda, di per sé, non rappresenti una condizione sufficiente a dare conto delle disomogeneità dei risultati osservati. Insieme ad elementi come la dotazione tecnologica e la produttività del lavoro, gli studiosi evidenziano il ruolo decisivo delle capacità e della formazione dei manager. In ultima istanza, all’origine delle difficoltà nell’intraprendere percorsi di internazionalizzazione delle PMI, emergerebbe l’assenza di risorse umane con profili professionali specialistici e altamente qualificati.
A conferma di questo assunto, si possono osservare difformità tra aziende, in varie fasi del processo di internazionalizzazione, in funzione della diversa composizione del middle e top management. Le evidenze osservate sul campo, sembrano dimostrare, dunque, il sussistere di una stretta correlazione tra le competenze dei componenti dell’organo gestorio dell’azienda e l’attitudine all’internazionalizzazione dell’impresa.
Se si concentra l’attenzione sul tessuto produttivo italiano, per lo più costituito da imprese di piccole dimensioni di tipo familiare, si capisce facilmente che il raffronto con i casi di studio internazionali non è in grado di descrivere in maniera soddisfacente la situazione propria del nostro Paese. In virtù della sua natura peculiare, il nostro sistema imprenditoriale appare, infatti, caratterizzato da una storica resistenza, da parte della proprietà, ad assumere manager esterni, alimentando in maniera significativa il rischio di non riuscire ad avere un reale sbocco sui mercati esteri.
Per questo motivo, Carlo Russo ha più volte indicato, come fattore discriminante per il successo dell’impresa di piccole e medie dimensioni nel passaggio al mercato internazionale, proprio la lungimiranza della proprietà nell’aprire l’organo gestorio dell’azienda all’apporto di esperti indipendenti di alto profilo con una formazione specialistica, in grado con il loro bagaglio di conoscenze e relazioni anche di supplire ai limiti e alle imperfezioni organizzative e finanziare che si possono riscontrare in queste realtà aziendali.