Nel Rapporto Istat sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 dell’Onu, l’Italia occupa la seconda posizione in Europa (38,8%), subito dopo la Francia (45,3%), per presenza femminile nei CdA e nei ruoli di alta dirigenza delle grandi società quotate in borsa (il dato medio dei Paesi Ue27 è 30,6%). Un dato sicuramente incoraggiante, come sottolinea nel suo commento al rapporto Carlo Russo, e non molto lontano dall’obiettivo fissato dalla Strategia Nazionale per la Parità di genere 2021 (45%).
Se si prendono in considerazione le sole società italiane quotate in borsa, la percentuale di presenza femminile sale nei consigli di amministrazione sale ulteriormente raggiungendo il 41,2%, segnando, rispetto all’anno precedente, un incremento percentuale, pari a +2,4%. Più stabile, secondo i rilievi forniti dall’ente di ricerca, la quota di donne in posizioni dirigenziali e intermedie (23%), con una percentuale ancora piuttosto lontana dal conseguimento dell’obiettivo del 35%, fissato dalla Strategia Nazionale per la Parità di genere.
Appaiono ancora poche le donne che rivestono ruoli di amministratore delegato (solo l’1,9%, nell’ambito di 16 società, rappresentative del 2,4% del valore totale di mercato) e di presidente o presidente onorario (un esiguo 3,5%, per 30 società rappresentative del 20,7% della capitalizzazione complessiva).
Come ricorda Carlo Russo, “l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” è il documento adottato dai Capi di Stato in occasione del Summit sullo Sviluppo Sostenibile del 25-27 settembre 2015. Il documento fissa gli impegni per lo sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030, individuando 17 Obiettivi (SDGs – Sustainable Development Goals) e 169 target. L’Agenda 2030 riconosce lo stretto legame tra il benessere umano, la salute dei sistemi naturali e la presenza di sfide comuni che tutti i paesi sono chiamati ad affrontare. Il processo di cambiamento del modello di sviluppo viene monitorato attraverso i Goal, i Target e oltre 240 indicatori: rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente in sede Onu e dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali.
A margine dei dati Istat, Russo sottolinea nuovamente il ruolo decisivo, da lui più volte evidenziato con forza, di una ampia e fattiva diversificazione all’interno del board, aspetto in grado di produrre molteplici vantaggi sia in ambito societario che sociale.
È opportuno sottolineare, che, quando si fa riferimento al concetto di diversità all’interno dei CdA, non si devono intendere solo le questioni di genere (più donne), ma anche ampia varietà di altri elementi, come titoli di studio, qualifiche professionali, etnia, età, ruoli degli amministratori non esecutivi, ma anche elementi meno concreti come competenze, esperienza, attitudini personali.
Studi scientifici (FRC Board Diversity and Effectiveness nel FTSE 350, Gender 3000 di Credit Suisse, Diversity Wins di McKinsey e il nuovo rapporto della London Business School, SQW) hanno provato l’esistenza di una correlazione precisa tra board diversity e migliori performance aziendali. Proprio queste evidenze stanno spingendo gli investitori ad accelerare sul fronte della diversificazione.
In particolare, Carlo Russo cita Gender 3000 di Credit Suisse, che analizza i progressi compiuti nel miglioramento del profilo della diversità di genere, descrivendo con accurata documentazione il la relazione positiva tra una maggiore diversità di genere nelle posizioni di leadership e l’incremento dei rendimenti della performance ESG, dell’andamento del titolo e del capitale. Quanto più integrata ed effettiva è la diversità in un’organizzazione, tanto più solido è il rapporto. Il manager toscano non manca poi di sottolineare come oggi le imprese appaiano sotto pressione: il raggiungimento di un profilo di di equità sociale e uguaglianza razziale condiziona le assunzioni, i compensi dei dirigenti, lo sviluppo delle carriere, l’inclusione e il benessere dei dipendenti.
Tendenzialmente l’opinione pubblica percepisce le aziende come poco attente a tematiche come disuguaglianze, riqualificazione della forza lavoro, gap di genere, cambiamenti climatici, economici, ma si tratta di temi che in maniera sempre più evidente influenzano la vita e le dinamiche aziendali.
Quanto più alto è il tasso di diversità all’interno di un’organizzazione, tanto più affidabili sono i rapporti al suo interno. Dopo la buona notizia delle quote rosa nei consigli di amministrazione, lo spunto di riflessione ulteriore proposto da Russo, riguarda lo spazio riservato, all’interno degli stessi organi gestori aziendali, agli under 40. I dati in proposito parlano di un ritardo drammatico: in più del 70% delle Pmi italiane non è presente neppure un giovane nel CdA. Come ha rilevato qualche mese fa l’Aidaf Italian family business, l’associazione italiana delle aziende familiari, negli ultimi anni, la presenza dei leader under 40 al vertice delle imprese ha addirittura subito un sensibile ridimensionamento, passando dal 16,9% all’8,7%.
Queste evidenze, scrive Carlo Russo, dimostrano che le aziende del nostro paese hanno sicuramente operato in direzione della parità di genere, raggiungendo dei risultati perfettibili ma apprezzabili, ma sono attualmente nella condizione di dover far fronte a nodi relativi a questioni di inclusione e diversità più ampie, come quelle riguardanti età, disabilità, origini nazionali e socioeconomiche, orientamento sessuale, cultura, livelli di istruzione, esperienza lavorativa.
Alla luce dei riscontri positivi registrati tra le aziende italiane sulle quote rosa nei CdA, conclude Russo, forse ci si potrebbe porre la questione della necessità di un nuovo intervento normativo finalizzato alla valorizzazione dei giovani talenti. L’Italia, come sappiamo, è un Paese che invecchia celermente e afflitto da una patologica lentezza nel ricambio generazionale, e questo non può che produrre evidenti ricadute negative sulla competitività e sulle capacità di innovazione delle nostre aziende. È del tutto evidente che occorre agire con urgenza su specifica emergenza.